Rebecca Olsen si racconta per Arscode 2.0

Circa 200 artisti sono coinvolti nella nuova edizione di Arscode il gioco dell’arte.
Davvero uno sforzo notevole, in termini di relazioni e di produzione. Ma, come sempre, le grandi avventure sono il nostro pane quotidiano…

Così, con l’obiettivo di voler dare voce agli artisti stessi, abbiamo pensato di realizzare piccole interviste, per far conoscere più in profondità la loro poetica e le opere con cui giocheremo… Con frequenza almeno settimanale, cercheremo di essere puntuali per presentarvi un artista in un dialogo diretto. Ci piace pensare che, giocando con le loro opere, possiate appassionarvi sempre di più ed individuare i vostri artisti preferiti!

Proseguiamo le nostre interviste con Rebecca Olsen!

 

Con quali materiali ami lavorare?
I materiali, per me, sono una fonte inesauribile di ispirazione. Il mio percorso è in costante evoluzione e mi sorprendo continuamente ad aggiungere nuove tecniche e materiali alla mia pratica. Lavoro principalmente nel bidimensionale: disegno, collage, pittura con acrilico e encausto. Produco stampe (esclusivamente monoprint). Nel 2019 ho iniziato a sperimentare i formati della scultura, integrando elementi trovati, argilla e video (in particolare stop motion).
Il mio lavoro è un’ibridazione tra astrazione, immagini trovate, texture e disegno. Se dovessi definirmi direi che sono una persona che ama creare con le mani ma la pratica che sento appartenermi visceralmente è il disegno. Tutta la mia produzione è, in fondo, un’estensione del disegno. Amo disegnare con penne, per l’immediatezza e la sincerità che questo mezzo così poco indulgente impone. Ma se dovessi scegliere un solo materiale direi la cera (l’encausto). È un materiale difficile, ostico, ma mi entusiasma spingere i suoi limiti, sfidare la materia fino al punto di rottura.

Quali artisti ti hanno ispirato di più?
È fondamentale distinguere tra ispirazione e influenza: non sono la stessa cosa. Se rispondo con onestà alla domanda su chi abbia influenzato il mio lavoro, direi la mia famiglia: mio padre, mia madre e la mia matrigna.
I primi lavori di mia madre erano fortemente geometrici: opere op-art monumentali che hanno sicuramente abitato il mio inconscio. Da bambina trascorrevo molto tempo nello studio di incisione di mio padre, osservando come sviluppava un linguaggio personale all’interno di un mezzo considerato tradizionale. Ha infranto le regole, sperimentando con tecnologie e tecniche non convenzionali. Questo ha avuto un impatto enorme sul mio modo di concepire l’autonomia creativa. La mia matrigna ha attraversato le barriere tra incisione e scultura, mostrandomi che anche un linguaggio tradizionale può essere piegato a una voce personale.
Ma se parliamo di ispirazione, delle presenze che hanno nutrito il mio sviluppo artistico, penso a Richard Tuttle, James Turrell, Judy Chicago, Mark Bradford, Julie Mehretu. E ultimamente sento una forte attrazione verso le surrealiste, in particolare Meret Oppenheim.

Nella società attuale, qual è – o meglio, quale dovrebbe essere – il ruolo dell’artista?
Dipende tutto da cosa definiamo “artista”. Dico spesso ai miei figli che i creativi sono ovunque: hanno contribuito a tutto ciò che ci circonda. Pochi artisti riescono a vivere esclusivamente della vendita delle proprie opere. La maggior parte di noi ha molteplici ruoli e professioni, tutti alimentati dalla pratica artistica.
Credo che l’arte sia parte integrante della nostra umanità. Antropologicamente è sia il prodotto della nostra evoluzione sia una forza che ci ha modellato come esseri complessi. L’artista può essere un filtro: un’interfaccia tra l’esperienza umana e la sua elaborazione simbolica. Non tutti gli artisti incarnano questo ruolo, né dovrebbero farlo. Ma penso che uno dei ruoli più importanti sia proprio quello di riflettere l’essere umano nel tempo presente: le sue idee, le sue identità, i suoi conflitti. Il ruolo dell’artista deve riflettere questo costante mutamento.

Qual è il tema contemporaneo più scottante?
Direi quello che dovrebbe esserlo: il futuro. Mi riferisco sia al cambiamento climatico, sia alla deriva autoritaria che stiamo vivendo, con il potere, le risorse e la ricchezza sempre più concentrati nelle mani di pochi.

In che modo la pratica artistica può influenzare attivamente le questioni più urgenti, come il cambiamento climatico, le guerre, la migrazione?
Mi sono posta questa domanda molte volte. L’arte può cambiare il mondo? Forse no. Ma può rifletterne le condizioni e contribuire a risvegliarlo. Come il giornalismo, l’arte può informare, scuotere, sensibilizzare. Quando l’arte ignora ciò che accade, manda il messaggio implicito che “tutto va bene”. È forse uno degli ultimi spazi in cui è ancora possibile esplorare territori impervi, porre domande scomode, immaginare alternative.
Non è l’arte a cambiare il mondo, ma può essere la scintilla che accende un fuoco. Detto ciò, l’arte visibile a un vasto pubblico è spesso mediata da istituzioni – gallerie, fondazioni, musei – che ne limitano la portata attraverso la logica del mercato o delle sovvenzioni. Questo riduce l’impatto potenziale dell’arte come agente di cambiamento. In un’epoca segnata da crisi e polarizzazione, l’arte può essere il canarino nella miniera. Se anche gli artisti iniziano a conformarsi e silenziare il dissenso, allora dobbiamo davvero preoccuparci.

Se potessi viaggiare nel tempo, dove andresti e perché?
Domanda difficile. Una parte di me vorrebbe vedere il futuro, ma probabilmente sarebbe un desiderio di cui potrei pentirmi. Preferirei tornare all’alba dell’umanità, prima delle migrazioni originarie dall’Africa. Mi affascina l’origine, la nascita della coscienza.

Se potessi passare un paio d’ore con una grande figura del passato, chi sceglieresti?
È quasi impossibile rispondere. Ma se potessi rivedere una persona che non c’è più, sarebbe mio padre. Per quanto straordinario sarebbe incontrare Auguste Rodin o chiacchierare con Einstein, nulla sarebbe più prezioso che avere altre due ore con lui.

Raccontaci il concetto della tua opera – quella con cui tutti potranno interagire.
Quest’opera è un lavoro ibrido che si colloca tra due delle mie serie: The Sound of Silence e i miei collage più recenti.
La serie
The Sound of Silence nasce da un’osservazione dei muri della città di Firenze, superfici attraversate da scritte, graffiti, segni di dissenso e presenza. Questi interventi visivi vengono regolarmente cancellati dalla città in una retorica di “decoro” urbano, volta a rimuovere tutto ciò che è percepito come disordine o degrado. Tuttavia i colori utilizzati per coprire non coincidono mai perfettamente con quelli originali. Il risultato è la creazione involontaria di una mappa urbana composta da pitture monocrome minimaliste, campiture silenziose che emergono come opere concettuali disseminate nello spazio pubblico.
Queste superfici, nate da un atto di negazione, diventano testimonianze della rimozione stessa. Sono silenzi imposti che si trasformano in linguaggio visivo. Le mura, così trattate, non raccontano più ciò che è stato cancellato, ma ne conservano l’impronta attraverso astrazioni involontarie, presenze che dicono ciò che non si vuole vedere.
Sovrapposta a questo sfondo urbano compare l’immagine di un uomo in giacca e cravatta. La testa è assente: non è un ritratto ma un simbolo. Non è l’individuo ad essere rappresent
ato, ma l’abito stesso, il completo maschile nella sua totalità, come forma e simbolo.
L’abito diventa così un’icona del potere: una struttura formale che rappresenta autorità, influenza, e forza istituzionale. È una presenza anonima e codificata che agisce senza volto, ma non senza impatto.
L’opera è parte della mostra personale
Everything Everywhere All at Once, presentata alla Hunt Gallery di St. Louis, Missouri, USA a Novembre 2024.
La mostra affronta, tra gli altri temi, le dinamiche di potere e le forze invisibili che modellano il nostro ambiente e il nostro modo di vedere. Indaga i meccanismi attraverso cui si cancella, si ignora, o si rende invisibile ciò che risulta scomodo. L’atto di coprire diventa esso stesso narrazione: un’estetica del rifiuto che produce nuove immagini, spesso più eloquenti delle originali.

Cosa ti viene in mente quando ti dico “giochi da tavolo”?
In inglese, “board” e “bored” sono omofoni, e c’è qualcosa di ironico nel fatto che i bambini li usino per non annoiarsi. Ma i giochi da tavolo hanno un potenziale molto più grande: sono sociali, strutturati, spesso educativi. Possono insegnare strategia, ma anche – come nel caso di Arscode – avvicinarci all’arte in modo nuovo, accessibile e, perché no, sorprendente.

Le Carte con le opere di REBECCA OLSEN sono inserite in queste scatole

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